Cercando ispirazione per iniziare a scrivere questo articolo passa per la mia mente l’immagine figurata del cavallo di Troia. Quella diavoleria travestita da offerta ma pregna d’inganno che, come racconta la storia, i Greci lasciarono davanti alla porta di Troia. Quasi che quella storia che Omero raccontò nell’Odissea abbia qualcosa in comune con quello che oggi mi accingo a raccontare. "Nel nome di Dio e di nostra Signora Maria. Questo è un libro che parla di come guarnire e addobbare piume per pescare Trote". Così comincia il Manoscritto di Astorga. Conosciuto dai pescatori, tanto da quelli Spagnoli come del mondo intero, è stato sempre ammirato per la qualità e quantità di informazioni che conteneva, sebbene il suo valore reale sia sempre stato offuscato per vari motivi: il primo, il ritrovamento tardivo del documento. Il secondo, le posteriori apparizioni e sparizioni del medesimo. Il terzo, la difficile interpretazione tanto delle informazioni che contiene il testo, come del metodo per costruire quelle mosche artificiali, che divennero quasi un enigma criptato dentro alle sue pagine, a volte impossibile da risolvere.
La sua storia: correva l’anno 1624 e un chierico della città di Astorga (Leòn), di nome Juan de Bergara, cominciò a redigere un documento nel quale, lui, e successivamente un’altra persona, la cui identità non si conosce, raccolsero una parte delle conoscenze esistenti all’epoca sulla pesca con la mosca e sulle mosche per la pesca, riportando informazioni che già allora dovevano essere familiari per i pescatori della zona di Leòn. Quell’esemplare unico, che aveva la forma di un quaderno di piccolo formato, un opuscolo, con venti pagine scritte di proprio pugno dai due autori, prese in seguito il nome della città che lo vide nascere e che oggi conosciamo come il Manoscritto di Astorga. Venne scoperto intorno agli anni Trenta del secolo passato e non fu subito possibile studiare in profondità il suo sorprendente contenuto, nonostante le prime notizie riportassero della sua enorme importanza. Poco tempo dopo la morte del suo ultimo proprietario, D. Julio de Campo, il documento si perse, a causa di spostamenti, in mezzo ai volumi della sua biblioteca, fino a che fu di nuovo localizzato all’inizio degli anni Sessanta per venir poi acquisito dalla Provincia di Leòn. Fu in questo periodo che le sue pagine furono fotografate e posteriormente trascritte da D. Jesus Pariente Diez. Grazie al suo lavoro e dedizione, conserviamo oggi il contenuto e la forma del Manoscritto di Astorga. E dico questo, perché nell’anno 1964 la Provincia di Leòn lo regalò al Generale Franco durante una visita alla città di Leòn. Da quel momento se ne persero le tracce e oggi risulta scomparso.
Il manoscritto e il suo linguaggio: il Manoscritto di Astorga si compone di una successione di ricette per costruire trentasei mosche da pesca, ordinate, come pare fosse l’usanza tra gli antichi scritti di pesca, secondo lo scorrere dei mesi dell’anno. In questo caso da Gennaio fino a San Juan, al finale del mese di Giugno. Leggendo le sue pagine incontriamo prima una calligrafia, meglio dire due, una di ogni autore, relativamente facili da leggere. Il vero problema si incontra quando proviamo a capire quello che i due autori volevano dire e perché. Perciò il primo passo per avvicinarsi al suo contenuto era capire il linguaggio e la sua forma per usarlo come strumento descrittivo. L’assenza di dettagli sulla maniera di procedere per unire tutti i materiali che descrive per realizzare le mosche, le misure, il modo di formare una montatura, come pescare con queste, ci porterebbe a pensare che queste note potrebbero essere appunti personali di proprietà esclusiva dell’autore, oppure per un piccolo gruppo di intenditori. In questo modo si giustificherebbe l’assenza d’istruzioni che invece altri autori nel tempo inserirono nei loro testi con l’intenzione di attrarre un pubblico. Nel Manoscritto di Astorga mancano le spiegazioni, dovuto al fatto che sicuramente dovevano essere state considerate superflue. Dobbiamo riconoscere che questi montaggi che sono arrivati fino a noi dalla ricompilazione manoscritta del 1624 sono il frutto di una tradizione molto anteriore. Altrimenti non avremmo potuto comprendere la semplice, quanto raffinata tecnica, né la elaborata combinazione di materiali. Juan de Bergara avverte che il suo scritto “va preso e utilizzato con un minimo di conoscenza dei libri da parte di pescatori di una certa esperienza”.
Di quei libri o del loro contenuto non vi è traccia documentata, sebbene senza dubbio questi contenuti ed esperienze si sono conservati nel linguaggio comune e nei racconti della tradizione orale, legati all’arte del montaggio di mosche tradizionali di Leòn. La chiave per il riscatto di questo trattato si deve in gran parte alla sua analisi e recupero. Così, per esempio, a fronte della domanda “su che mosca salgono le trote?”, ancora oggi è frequente ascoltare tra i pescatori di Leòn una risposta che suona come “sul tabacco, rigato in osso, con gallo pardo crudo”. Il resto non serve, perché tutti i pescatori sanno come si fa e quale sarà l’aspetto finale. Questa descrizione stringata, che si traduce in una mosca dal corpo color marrone, di tono simile al tabacco, anellata con un filo di color crema o bianco sporco e con avvolta una piuma di Coq de Leòn Pardo' con macchie grosse, scure o nere, sopra uno sfondo bianco, contiene in essenza la stessa tecnica descritta e usata 400 anni prima.
Vediamo come descrisse Juan de Bergara una di quelle mosche, battezzandola, se qualcuno non lo avesse fatto prima, come (rossiccio grezzo da metà Marzo ad Aprile), “bermejo crudo de mediado Março y Abril: lleva un negrisco açerado claro luego una de pardo de obra muy menuda que no sea dorada encima desta, una de picapez, luego otro negrisco como el primero. Por capa dos bueltas de bermejo de gallo de muladar ençendido. Cuerpo de seda abinagrada a manera de acavellado escuro, papo y cocote seda leonada muerta. Vinco acul y blanco delgado y poca rropa en el ala tanbien se puede echar el cuerpo de çedaço y es muy bueno. La Caveça encarnada puede".
Che, interpretato, suonerebbe così. “Monta una piuma di gallo di di Coq de Leòn Indio
del color dell’acciaio chiaro. Poi una di Coq de Leòn Pardo con piccolissime macchie, che non è dorata. Sopra quest'ultimo, una piuma di Martin pescatore a macchie molto piccole, che non sia dorata. Sopra a quest’ultima, una piuma di Martin Pescatore (Alcedo Atthis). Poi un’altra piuma di Leòn come la prima descritta. In testa due giri di gallo comune color rossiccio intenso. di seta color aceto, simile al colore dei capelli castano scuro. La parte superiore e inferiore del torace di seta del colore del pelo sbiadito di un leone. Anellatura di colore azzurro e bianco, con due fili fini ritorti. Non si usi una quantità eccessiva di piume per imitare le ali. Il corpo può essere fatto anche di fibre di canapa avvolte e la mosca continua a essere efficace. La testa può essere del color della carne”. Dopo aver letto queste righe viene immediatamente da chiedersi: come può qualcuno unire in un centimetro di amo cinque fili distinti a formare un corpo di una mosca e fino a cinque piume diverse per imitare le sue ali? Però prima di tentare una risposta dobbiamo avvicinarci agli adobos y aderecos, gli ingredienti e le miscele che usarono i pescatori di quel tempo per costruire le loro mosche.
I materiali: i fili e le piume. In totale, nel Manoscritto di Astorga vengono citati trentanove colori e tipi diversi di fili, principalmente di seta, ma anche di lino e canapa. Fili e colori che danno forma ai corpi delle mosche e che compongono le anellature sopra gli stessi, disegni che la natura aggiunse al torace e all’addome degli insetti reali, oltre a dare il colore preciso alla testa di ogni imitazione. Per poter interpretare le descrizioni che il Manoscritto di Astorga da dei colori, è necessario comprendere che Juan de Bergara e il secondo autore utilizzano nomi pre-scientifici, nella misura in cui gli oggetti, in questo caso fili o piume, si descrivono con la loro somiglianza a modelli naturali, come ad esempio: leonado (del colore del pelo del leone), avinagrado (del colore dell’aceto), acerado (del colore del’acciaio), ahumado (del colore del fumo).
Ogni mosca ha il suo proprio nome, che prova a descriverla senza menzionare l’autore, la provenienza o altre caratteristiche estranee. Preferisce mostrare attraverso il nome alcune peculiarità legate alla sua forma, al suo colore, alle piume, oppure a qualche comportamento dell’insetto imitato. Cosicché nell’elenco dei nomi appaiono: Negriscos (con le ali formate da piume del gallo de Leòn della varietà Indio, o negrisco come le chiama nel Manoscritto), Salticas (che saltano), Longaretas (dal corpo allungato), Encubiertas (con le ali che coprono il corpo). Oggi, a prescindere dalla fotografia e utilizzando unicamente il linguaggio, sarebbe difficile mettere insieme delle descrizioni più semplici, naturali e pedagogiche che quelle contenute nel Manoscritto di Astorga.
Tornando ai fili, senza dubbio il protagonista era la seta. Mentre fu impiegata pochissimo nelle dodici mosche descritte nel Treatyse (1496), attribuito alla Dama Juliana Berners, appare senza dubbio ampiamente usata anche nei primi trattati austriaci di pesca dell’epoca. Anche in Italia la seta fu senza dubbio il materiale per eccellenza. Oltre alla referenza scritta delle cinque mosche di Eugenio Raimondi nel 1632, che meriterebbero senza dubbio un’analisi più approfondita, le mosche valsesiane tradizionali sono testimoni eloquenti dell’uso della seta. Insieme alla seta, nel Manoscritto di Astorga si utilizzano fili di canapa o lino, citati con le stesse finalità in scritti europei posteriori.
Se per i corpi la tavolozza di colori è notevole, per quanto riguarda le piume è spettacolare. Nel Manoscritto di Astorga appare la prima notizia riguardo alla piuma del gallo di Leon e del suo destino, le mosche artificiali. Possiamo considerare le sue descrizioni come il primo catalogo che mostra i dettagli e le differenze di una selezione di sessantasei varietà differenti di piume Coq de Leòn Pardo e di Coq de Leòn Indio. Ognuno scrive la propria storia con l’inchiostro che ha a portata di mano e in tema di pesca a mosca accade lo stesso con le piume. Senza dubbio l’esistenza delle mosche del Manoscritto di Astorga è inesorabilmente legata alla fortuna di disporre delle piume di questi uccelli. Le piume del gallo di Leon che descrive il Manoscritto di Astorga mantengono anche ora nomi simili e sono disponibili ancora oggi. In quanto alle peculiarità di queste piume e tralasciando la loro idoneità a imitare la brillantezza e la marcatura delle ali di qualunque insetto, c’è da dire che posseggono il valore aggiunto di una struttura uniforme e liscia di ogni fibra che compone la piuma, che fa si che queste conservino le loro qualità sia asciutte che bagnate. Oltre a mantenere il volume e la forma desiderata grazie alla loro flessibilità.