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Il Maestro

Era una roccia imponente, maestosa. Si era guadagnata il rispetto del fiume resistendo immobile alla furia delle piene, all’urto dei tronchi sbattuti dall’acqua e all’erosione del tempo.


Era una roccia imponente, maestosa. Si era guadagnata il rispetto del fiume resistendo immobile alla furia delle piene, all’urto dei tronchi sbattuti dall’acqua e all’erosione del tempo. Ne portava i segni come piccole cicatrici. Si erano seduti tante volte su quel masso, così grande e così comodo da parere scolpito da mano di uomo invece che dalla mano di Dio. Anche in due rimaneva abbondante spazio per i cestini di vimini, per le giacche, le canne e per i loro sogni. Ora che vi sedeva solo, immerso nei suoi pensieri, ora che il suo maestro aveva lasciato questo mondo tanti anni prima, quel masso pareva anche troppo grande e di posto ce n’era in abbondanza, anche se quei sogni avevano lasciato posto al tempo dei ricordi. Era il loro masso, non così vicino all’acqua da bagnarlo ma abbastanza per sentirsi parte di quel fiume. Da li potevano osservare un ampio tratto, dalla grande curva a monte e giù fino al raschio, dove l’acqua iniziava a incresparsi per poi rompersi in una miriade di piccole correnti. Il suo maestro amava sedersi li ad aspettare la schiusa serale, godendosi il tepore del sole filtrato dalla vegetazione della riva mentre prendeva lunghe boccate di fumo dalla sua solita sigaretta. La primavera e l’estate con il loro crescendo di vita erano le stagioni che preferivano ma non disdegnavano anche l’autunno e le sue malinconie. Le schiuse autunnali di piccoli insetti e le temperature più fresche dopo il caldo estivo erano rilassanti ma Giugno rimaneva il loro mese preferito, specialmente all’inizio del mese quando le abbondanti schiuse delle grosse effimere mettevano in movimento le trote più grosse. A volte il maestro non parlava, pareva stanco e assorto in chissà quali pensieri e lui aveva imparato a rispettare questi tempi. Non era un gran fastidio il non parlare e poteva permettersi di osservare il maestro o la natura che li circondava. Che parlassero o che rimanessero in silenzio, sia la natura che il suo maestro riuscivano a insegnarli qualcosa. Bastava solo saper leggere dai segnali giusti. Non gli aveva mai confessato di chiamarlo maestro anche se immaginava che lui potesse percepire e intimamente compiacersi di questo rispetto e devozione. Non aveva mai neppure osato dimenticarsi di aggiungere un rispettoso Signore di fronte al di lui nome ogni volta che vi si rivolgeva, e così aveva fatto pure il maestro nei suoi confronti. Lo aveva conosciuto molti anni prima, all’ufficio postale. Da dietro il bancone lo aveva visto entrare con un pacchetto fra le mani avvolto in carta cerata. Aveva un aspetto distinto, piuttosto basso di statura, con baffi neri ben curati e un vestito di buona fattura. Quella volta era stato lui a servirlo, non la sua collega come avveniva di solito. Era stato gentile, aveva pagato e aveva consegnato nelle sue mani qual pacco indirizzato nel Regno Unito, dall’altra parte dell’oceano. Poi con la stessa tranquillità se ne era andato salutandolo con un sorriso. Era tornato molte altre volte, a intervalli regolari, per ritirare la propria posta o con lettere e pacchetti da spedire, alcuni dei quali sempre indirizzati verso il vecchio continente. A parte un saltuario scambio di lettere con la madre, che abitava da qualche parte nello stato di New York, tutta la corrispondenza era con altri pescatori. Non ricordava come iniziarono a conversare ma di fatto erano entrati in confidenza. Seppe che viveva da solo in un piccolo villino in legno a diversi chilometri di distanza e che era un pescatore a mosca. Anzi pareva, da come ne parlava, che la pesca a mosca fosse la cosa più importante della sua vita. In seguito ne ebbe poi la certezza. Il suo parlare di pesca a mosca aveva più il sapore poetico del decantare e a lui piaceva ascoltarlo per ore, memorizzando in rispettoso silenzio ogni singola parola.


Fu il suo maestro a svelargli i segreti di quella gentile arte. Ricordava bene, come fosse ieri, quando tanti anni prima era entrato nel villino in legno ai bordi della radura, bussando e aspettando rispettosamente sul patio l’invito a entrare. Quella volta il suo maestro non coprì il proprio tavolo da costruzione come faceva sempre. Non rammentava di aver mai visto bene quegli attrezzi così in bella vista, eppure questa volta erano lì davanti a lui, fili, piume, peli e decine di ami sparsi sul tavolo. Si era reso conto di non aver quasi salutato per lo stupore e girandosi aveva visto il maestro intento a preparare il caffè con una sorta di sorriso sotto quei baffi neri. Poi si erano seduti e il maestro aveva cominciato a mostrargli tutte quelle piccole buste di carta cerata in cui conservava le piccole piume. Di alcune ne esaltava le caratteristiche e ne declamava il valore, di altre ne lamentava la bassa qualità e la loro inutilità per costruire mosche adatte ai loro fiumi. Diverse di queste arrivavano dall’Inghilterra e gli erano state spedite da amici di penna del vecchio continente. Tra questi ve ne erano alcuni i cui nomi a lui parve di ricordare. Forse li aveva letti su qualche volume che il maestro gli permetteva di leggere nei pomeriggi passati assieme, libri che parlavano di mosche secche e di fiumi calcarei del sud inglese. Ma anche libri che esaltavano la pesca con la ninfa.



Quelle mosche secche inglesi, tutto era partito da li, una pugno di queste era stata la scintilla del pensare del suo maestro. Belle, imitative e ben fatte, ma così inadatte a lavorare sulle acque americane, impreparate al duro compito di sostenersi in mezzo a correnti, giri d’acqua e schiuma dei loro fiumi sulle montagne dei Catskill. Il maestro le aveva studiate, capite e ne aveva trovato i limiti. Limiti strutturali e quelle hackle così troppo morbide. Aveva osservato gli insetti dei loro fiumi, cercato i materiali migliori e con quelli creato perfette strutture di piume e sete adattandole, come uno dei migliori sarti, alla fisionomia dei loro fiumi. Quando il maestro, quel giorno ormai lontano, aveva iniziato a mostrargli come montarne una, lui si era sentito subito stregato da quelle mani che danzavano intorno al morsetto fissato su quel robusto tavolo di legno. Sembrava volassero, parevano quasi le mani guantate di un prestigiatore che, con movimenti vibranti, liberano una colomba in volo. Alcune di quelle mosche dategli dal maestro erano ancora lì nella sua scatola, alcune le aveva usate, altre le aveva segretamente smontate per ricordarne i passaggi. E, poco a poco, aveva iniziato a volare anche lui.



Sulla roccia, aspettando la schiusa, pensava a quanti aveva a sua volta insegnato a volare, soprattutto ai giovanissimi, così pieni di entusiasmo e così pronti a sognare. Quasi che sognare fosse un dono che dimentichiamo per strada crescendo. Quelle tante giornate passate ai campus estivi dei Boy Scout. Lo aveva fatto per passione, per amore e forse per ricambiare quel dono ricevuto dal suo maestro. Vedere negli occhi dei ragazzi la fierezza di quei maldestri primi tentativi, scarmigliati piccoli ammassi di pelo che un giorno si sarebbero trasformati in farfalle, minuti inganni pronti a volare voli artificiali tra i massi del fiume. Questa era stata la sua ricompensa. Volare, danzare. Quella che sentiva in lontananza era musica. Si mischiava al suono del fiume e pareva uscire da sotto i sassi. Non quella melodia che amava ascoltare ai suoi tempi, sembrava più una canzonetta moderna che usciva da qualche radio di automobile. O forse, una musica di gente in festa. L’ultima grande festa a cui aveva partecipato era stata molti anni prima.



Una festa organizzata per il suo pensionamento. Harry e gli altri amici la avevano organizzata per festeggiare i suoi 26 anni al servizio dello Stato. Harry era stato così gentile, la festa lo aveva commosso. A dire il vero Harry era sempre gentile con lui, a volte anche troppo accondiscendente. Ma questo, lui lo sapeva, era uno dei piccoli, piccolissimi vantaggi derivanti dall’invecchiare. La gente, anche se non tutta, tende trattarti a volte con troppa gentilezza quando sei vecchio, quasi come succede ai bambini. Ti perdonano tante cose, sono più gentili con te e persino la loro voce si addolcisce quando ti parlano. Ma non è una sensazione spiacevole, tutt’altro. Alla festa erano venuti tutti e per un momento aveva creduto di vedere anche coloro che non c’erano più, anche il maestro; forse la stanchezza o forse qualche goccio di bourbon che gli avevano fatto bere. O forse erano veramente li con lui a sorridergli e a congratularsi. Si, c’erano proprio tutti alla festa. Anche quelli che aveva rincorso per boschi e fiumi, anche alcuni che aveva arrestato, era sicuro di riconoscerne diversi in mezzo ai tanti volti. Loro sapevano che aveva dovuto farlo, che quello era il suo dovere di servitore dello Stato, un dovere che si era impegnato a rispettare ventisei anni prima. Così come lui sapeva che molti di loro lo avevano fatto per un tributo a quella fame che a volte ti spingeva a dimenticarti delle leggi. Erano state trote rubate per sfamare i loro figli e non il loro spirito.


Il sole era sceso da tempo dietro al vecchio sicomoro e un rossore diffuso preannunciava l’imminente arrivo della sera. Era tempo di tornare, a casa lo aspettavano e già immaginava che si sarebbero preoccupati del ritardo e lo avrebbero rimproverato. Alla sua età, rimanere sul fiume, da solo e fino a tardi. Se non avesse sentito sulle sue membra la fatica degli anni avrebbe potuto pensare di essere tornato bambino, quando si attardava tra i boschi intorno a casa a rincorrere scoiattoli. Ma cosa poteva mai accadergli di terribile sul suo fiume? Avrebbero forse quegli alberi immobili potuto ferirlo, o quell’acqua amica rapirlo e portarlo via? Già era stato rapito da quell’acqua tanti anni prima, rapito e stregato. Quali mostri avrebbero potuto uscire dall’oscurità per aggredirlo? O poteva forse quella immensa roccia animarsi e sovrastarlo col suo peso? No, quella roccia aveva ascoltato i suoi racconti e i suoi sogni per così tanto tempo, silenziosa compagna, e di questi era impregnata. Si, era tempo di tornare. La schiusa non sarebbe arrivata quella sera e non avrebbe preso nessuna trota. Ma lui non era li per i pesci, era li per i ricordi. In fondo al sentiero si girò per l’ultima volta a osservare il fiume, come faceva sempre, quasi per imprimere negli occhi la sua bellezza. Gli parve di vedere un uomo seduto dove era stato lui fino a poco prima, i capelli neri e folti baffi. Immobile come la roccia su cui sedeva, il suo maestro fissava l’acqua. Si girò, proseguendo sul sentiero e tra se sorrise. Presto si sarebbero rivisti...



Quasi nulla di questo racconto è frutto di fantasia, se non quelle piccole concessioni letterarie per unire i vari pezzi di storia. Non è fantasia la figura del Maestro, Theodore Gordon
ne la figura del vecchio pescatore e costruttore di mosche, Roy Steenrod.
Non mi è dato da sapere se Roy definisse intimamente Gordon come il Maestro, ma di certo questi furono gli equilibri del loro rapporto. E Theodore di Roy fu sicuramente il mentore. Non è fantasia la loro preferenza per il mese di Giugno. Si può forse non amare le copiose schiuse di grandi efemerotteri di quella stagione? Non è fantasia Albert, da cui la mosca più famosa di Roy prese il nome Hendrickson
Non è fantasia la descrizione della prima lezione di fly tying, forse non in quelle modalità, forse non in quei tempi, ma si può forse dubitare che un giorno ciò avvenne. Un giorno nel quale Gordon decise che Roy fosse meritevole di apprendere l’arte. Non è fantasia la festa e non è fantasia la figura di Harry, il famoso Darbee del villino sul Willowemoc. La festa organizzata per Roy, per il suo pensionamento. Di fantasia è di certo la roccia, ma può forse non esistere una roccia su cui due amici sedettero un giorno a parlar di piume?  

Alberto Calzolari.



Hendrickson Variant, legata da Umberto Oreglini che ha usato il  Qiviut dubbing per l'addome della mosca.



Questo articolo è apparso in Italian Deeds and Misdeeds, pubblicato da Fly Line Edizioni, ed è qui riprodotto con il permesso dell'editore Roberto Messori..